TU CHIAMALE SE VUOI… RIFLESSIONI

È da qualche giorno che osservo con più attenzione i miei tre figli maschi (poco più e poco meno che ventenni).
È dal giorno della vicenda della povera Giulia Cecchettin che li spio, che ascolto di nascosto le telefonate con le loro amiche e che cerco di decifrare i loro malumori.
Non avendo conosciuto nessuna di queste loro amicizie femminili non riesco a capire a chi dei miei figli associare i diversi nomi, che mi capita di udire durante il giorno.
Mi sorprendo inconsapevolmente ad osservarli anche quando dormono e mi chiedo “possibile che in questi volti si possa nascondere un potenziale omicida? Possibile che in uno di questi ragazzi, che fino a poco tempo fa facevano a gara per dormire nel lettone con mamma e papà si possa celare la mano di un assassino?”
Eppure questo non lo si può escludere a priori.
I nostri figli non li conosciamo fino in fondo.
Ovviamente nel corso della crescita ho cercato di inculcare loro il rispetto per gli altri e per le donne in particolare con l’ esempio prima ancora che con le parole.
Anzi, spesso mi è capitato di narrare loro una mia vicenda personale: una love story finita male.
Dopo sette anni fui lasciato dalla ragazza, che immaginavo di sposare. Un giorno ella mi convocò e mi informò di voler interrompere la nostra relazione. Non credeva più nella nostra storia. Dopo i primi “ma come… ma da quando…ma se fino all’ altro giorno mi hai detto,…” mi arresi al verdetto senza appello, perché ho sempre pensato che le donne quando dicono “basta” non c’è più niente da fare. Il tempo era scaduto.
In un certo senso le fui grato per questa scelta tempestiva, perché, stando così le cose, non era da escludere che il giorno del matrimonio mi sarei trovato da solo in chiesa: non mi sarebbe piaciuto perdere così un intero pomeriggio.
È ovvio che non mi fu facile ingoiare questo rospo: c’ era l’ orgoglio di maschio ferito e soprattutto violato il mio senso di onnipotenza. Senza contare poi che, come nel film “Scusate il ritardo” di Troisi pensavo che non mi sarebbe stato facile fare capire alla mia prossima morosa, che non mi piacciono le pellecchie del pomodoro sulla pasta, tenuto conto che avevo impiegato anni per comunicarlo a lei che tanto amavo. E poi ancora: immaginavo l’ impresa ardua di rapportarmi ad una nuova suocera, fare la trafila per conoscere nuovi parenti e amici della nuova fiamma, visto che non mi garbava sin da allora di restare zitello.
Immaginavo, inoltre, che mi sarebbe stato difficile spiegare il tutto ai miei genitori.
Però accadde (miracolo fra i miracoli) che mia madre fu ben contenta della lieta novella ( tutto sommato le veniva restituito dopo sette lunghi anni il suo bimbo) E così pure mio padre che di solito diceva tre parole in un anno quel giorno si lasciò andare ad un sermone lungo un’ intera frase: ” Figlio mio – mi disse- il miglior matrimonio è quello che non si fa”.
E così avvenne che superati questi “esami” dopo dieci giorni dal benservito mi ritrovai in una selva oscura in intimità con la migliore amica di colei che tanto patir mi faceva.

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